Giancarlo Lotti: lo scemo, il pentito, il mitomane, l’imboccato, il vero e unico Mostro di Firenze

Qualsiasi tentativo di revisionismo storico sul Mostro di Firenze, ovunque voglia andare a parare – sardi, rossi, mossi, poliziotti, killer californiani, vicini di casa e tutto il resto della baracconata cospirazionista – è costretto a misurarsi con l’apporto dichiarativo di Giancarlo Lotti. Ma, non potendo intaccare null’altro se non qualche detrito narrativo parcellizzato ed estrapolato dal contesto, alla fine scivola nel più vecchio dei giochini argomentativi: la demolizione della persona. E allora, Giancarlo Lotti è alternativamente o insieme tutte le cose che seguono: lo scemo del paese, un pazzo, un mitomane, un pentito che ha goduto di privilegi carcerari, uno imbeccato dalla polizia giudiziaria, e più banalmente un bugiardo; oppure, secondo la più dilettantesca tra tutte le teorie che girano sulla Rete, il vero, unico e solitario Mostro di Firenze.
È il caso, dunque, di spazzare il terreno d’indagine da questi detriti d’opinione privi di alcun fondamento documentale, giudiziario, medico-scientifico, storiografico e pure logico sull’individuo, destrutturare punto per punto ogni falso mito sulla sua figura e spiegare, razionalizzandoli, quali sono gli sbagli catastrofici che la letteratura polarizzata su un innocentismo ortodosso, ormai da decenni, continua a commettere, in buona fede o no, su Lotti.
1) Giancarlo Lotti non è il Mostro di Firenze, assassino solitario e unico per tutta la serie. Partiamo dal fondo. È già di suo un’aberrazione storiografica e giudiziaria teorizzare un serial killer unico per i delitti delle coppiette, figuriamoci far interpretare questo ruolo – che, ricordiamocelo, nell’epopea criminale di cui ci stiamo occupando, non esiste – a Lotti. Per tale ragione non verranno sprecate altre battute su questa tutto sommato divertente ipotesi e sul dilettantismo di chi generosamente la promulga.
2) Giancarlo Lotti non è lo scemo del paese. È stato valutato capace di intendere e di volere da una consulenza firmata da due luminari della psichiatria come i professori Ugo Fornari e Marco Lagazzi. Lotti era, sì, una persona fragile, poco intelligente, affatto scolarizzata, e afflitta da numerosi problemi economici, sociali, e pure fisici e psicologici, amplificati da un galoppante alcolismo, ma non era un individuo non orientato nel tempo e nello spazio o incapace di comprendere anche solo superficialmente gli accadimenti attorno a sé. La storiella che fosse corso al campo sportivo del paese convinto di trovarci i marziani è stata ampiamente smentita, ma ancora oggi si registrano acuti commentatori che strumentalmente la ripropongono.
3) Giancarlo Lotti non è, tecnicamente parlando, un pentito. Se pure è corretto definirlo così in termini colloquiali, andrebbe scolpito nel bronzo che Lotti, dopo aver accusato sé stesso e altri per alcuni delitti del Mostro, non ha mai usufruito dei trattamenti carcerari previsti dalla relativa legge sul pentitismo. A seguito della sua chiamata di correità ha semplicemente trascorso un periodo di tempo recluso (recluso!) in una località segreta, che si è poi scoperto essere la questura di Arezzo. Da qui, cioè dalla sua “misteriosa” assenza nel carcere di Sollicciano o dalla sua San Casciano, è nato il mito del suo soggiorno in una struttura di lusso con pasti gourmet e vini pregiati pagati dallo Stato. Un mito sfatato da troppo tempo ormai per non assumere, oggi, sulla bocca di chi ancora vergognosamente lo diffonde, i contorni di una brutta bugia in totale malafede.
4) Giancarlo Lotti non è un mitomane. Viene raggiunto per la prima volta dagli agenti di Polizia Lamperi e Venturini già nel 1991 affinché rendesse dichiarazioni in qualità di persona informata sui fatti, e poi viene lasciato perdere per anni. Non si è mai verificato lo schema classico, speculare, del mitomane che spontaneamente va dalla Polizia o dai carabinieri a riferire cose. E poi non si comprende per quale ragione avrebbe dovuto inventarsi tutto (ma vabbè, questo vale per tutti i mitomani).
5) Giancarlo Lotti non è stato imboccato dai poliziotti. Come appena accennato, entra nella vicenda nel 1991 come persona informata sui fatti, e mantiene questa qualifica anche quando viene di nuovo interrogato per la prima volta nel 1995. Solo in un secondo (terzo) momento assume formalmente la scomoda qualifica di indagato, poi è di fatto, e non formalmente, un “chiamante” in reità; quindi, reo confesso e infine “chiamante” in correità. (E, una volta rinviato a giudizio, imputato nel processo, quindi condannato). Insomma, la sua è una progressione dichiarativa di opportunità che si dipana negli anni, lunga, faticosa ma del tutto naturale, scandita da queste complesse fasi investigative che sono totalmente incompatibili con la costruzione narrativa di un individuo che recita un copione, che fa la bocca degli inquirenti. È evidente che Lotti, fosse stato per lui, sarebbe stato zitto. Per sempre. Lo aveva già fatto dal 1991 fino a quel 1995. E avrebbe continuato a osservare un omertoso e interessato silenzio se non fosse stato messo con le spalle al muro dai progressi delle indagini.
Già, le indagini. Sul punto, come sul contenuto dei racconti di Lotti, c’è da fare un rilievo totalmente diverso. È vero che le dichiarazioni di Lotti sono confuse, contraddittorie, non puntuali, ricche di bugie e omissioni e affaticate da una grave difficoltà di linguaggio. Però, se ogni commentatore si spogliasse dell’iper-logica da avvocato difensore che pretende di tratteggiare e proiettare al prossimo – al giudice, ma anche all’odierna utenza della vicenda – una realtà per l’appunto iperrealistica secondo la quale nulla è ragionevole perché non è perfettamente iper-logico e tutto è falso perché non è perfettamente iper-vero, si accorgerebbe che gli incerti racconti di Lotti, tra bugie e omissioni, hanno un grave fondamento di verità. E che gli errori materiali su certe circostanze secondarissime, nella realtà degli interrogatori e dei dibattimenti – ma sarebbe da dire nella realtà, e basta – non sono capaci di far crollare la validità di un intero apporto dichiarativo. In particolar modo se così grande, strutturato e riscontrato a cascata da altri testimoni come è quello reso da Lotti. A meno che non si pensi di assistere a un avvincente legal drama statunitense, s’intende.
Ma poi, tutto ciò premesso, come avrebbero fatto, nel caso concreto, vari poliziotti e diversi magistrati a imboccare Lotti parola per parola sull’intero impianto dichiarativo che quest’ultimo avrebbe dovuto poi recitare nel corso degli anni, cioè dalle sue prime abbottonatissime dichiarazioni sino alla testimonianza con incidente probatorio, poi replicata in dibattimento? Perché un conto è ipotizzare un poliziotto smaliziato ed esperto che sa leggere chi ha davanti, e che magari agisce appena oltre il limite imposto dalla legge per ottenere degli aggiustamenti dichiarativi minimi su un fatto di reato non eccessivamente controverso; e un altro conto è fantasticare che un individuo del genere, così debole psicologicamente (però privo di psicopatologie invalidanti), e proprio per tale ragione incapace sia di costruire una bugia così enorme che di farla propria su imboccamento di terzi per poi proteggerla attraverso anni di interrogatori e processi, sia stato costantemente eterodiretto in maniera chirurgica nel mare di quelle profonde e complesse faccende dai vari Giuttari, Venturini, Lamperi sul fronte questura e dai vari Vigna, Canessa e Fleury su quello della procura. Il complotto del secolo. Ma anche un gran culo.
In ogni caso, come anticipato sopra, la prova che Lotti non sia stato imboccato dai poliziotti lo si evince dal riscontro del suo compare Fernando Pucci, oltre che dalle dichiarazioni totalmente indipendenti, convergenti e a loro volta a riscontro di quelle di Lotti e Pucci, di Gabriella Ghiribelli e Norberto Galli. È un po’ teatrale dirla nella maniera che segue, ma che Pacciani e Vanni fossero sulla piazzola di Scopeti ad ammazzare la coppia di francesi è una circostanza ampiamente accertata che resiste a un quadruplo riscontro. E non è una roba da poco.
Tuttavia, da troppo tempo, troppi commentatori, assuefatti da una specie di visione a tunnel (però al contrario), per confermare il loro pregiudizio teorico si affannano a cercare quali sono e dove sono le bugie di Lotti, non accorgendosi che la parte più importante del suo racconto forse è quella che non ha mai fatto. Dove si è fermato, che cosa non ha voluto o potuto dire, Lotti?

 

Author: Roberto Taddeo

Avvocato e autore di "MDF La storia del Mostro di Firenze", Voll. 1, 2, 3 (Mimesis edizioni 2023), curatore de "Il labirinto del Mostro di Firenze" (AA.VV. Mimesis edizioni 2025), direttore della collana Le notti della Repubblica (Mimesis edizioni). È consulente della Commissione parlamentare sui fatti del Forteto (2024 a oggi).

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