30 giugno 1975. È notta fonda. Carlo, Cristina ed Emanuela, tre ragazzi appena maggiorenni, stanno tornando a casa, a bordo di una Mini Minor, dopo una serata passata al bar Bosisio di Erba, per festeggiare, con altri amici, la promozione al terzo liceo di Cristina. All’improvviso una Fiat 125, ferma in senso inverso, si muove velocemente verso il centro della carreggiata, bloccando la loro auto. Nel frattempo, due uomini sbucano da una siepe, aprono la portiera e afferrano Cristina. La legano, le mettono un cappuccio in testa e la portano via.
Cristina Mazzotti era la figlia 18enne di Elios Mazzotti, un ricco mediatore internazionale di cereali. La famiglia pagò un riscatto di un miliardo e mezzo di vecchie lire ma la ragazza fu ritrovata morta un mese dopo, uccisa dalle dosi massicce di sonnifero e di psicofarmaci somministrate dai suoi carcerieri. Sei mesi dopo morì anche il padre di Cristina, ucciso da un infarto e dal dolore.
Furono tredici le persone arrestate per il sequestro e la morte di Cristina Mazzotti. Il telefonista fu individuato subito, una settimana dopo il sequestro, intercettato e trovato dai carabinieri quando era ancora in corso la chiamata con la richiesta di riscatto. Si era presentato come “il Marsigliese” ma altri non era che Sebastiano Spadaro, un calabrese all’epoca 23enne, già coinvolto nel sequestro di Emanuele Riboli, avvenuto l’anno prima, un ragazzo di 17 anni, ucciso col veleno per topi e dato in pasto ai maiali, e nel sequestro di Tullio De Micheli, un industriale di Comerio rapito e ucciso nel febbraio del 1975. Sebastiano Spadaro era all’interno di una cabina telefonica ma i carabinieri non lo arrestarono. Decisero di pedinarlo. Cristina era ancora viva, prigioniera in una buca profonda un metro e mezzo da cui usciva all’esterno un tubo di plastica di 5 centimetri per respirare. Se lo avessero arrestato forse Spadaro avrebbe parlato. Di certo sappiamo che il pedinamento non riuscì. Di Spadaro si persero le tracce. Intanto, a Lugano, nel settembre del 1975, due mesi dopo il sequestro, la polizia arrestò per riciclaggio Libero Ballinari, un contrabbandiere con cittadinanza elvetica. I 56 milioni di lire che aveva portato in banca provenivano dal riscatto pagato dalla famiglia Mazzotti. Il contrabbandiere messo alle strette se la cantò e oltre a confessare di aver partecipato al sequestro di Cristina, rivelò l’identità degli altri della banda. Parlò anche di un viaggio fatto in Calabria da tre dei suoi complici perché il sequestro, si scoprì, era stato organizzato dalla ‘ndrangheta. 10 furono gli arresti eseguiti tra Milano e Lamezia Terme. Il primo settembre 1975, fu ritrovato il corpo della ragazza, abbandonato nella discarica del Varallino, vicino Novara. Ma non tutti i responsabili del sequestro furono identificati e arrestati. Nel 2006, una comparazione con un’impronta rilevata sulla Mini Minor già nel 1975 riportò al pollice destro di un pericolosissimo mafioso, Demetrio Latella, finito, tra l’altro, nelle indagini sull’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, ucciso con 14 colpi di pistola il 26 giugno del 1983. La sua posizione nel delitto Caccia – rimasto in parte irrisolto – è stata archiviata ma per il sequestro e l’omicidio di Cristina Mazzotti, Demetrio Latella è stato rinviato a giudizio e processato. A distanza di 50 anni, ha ammesso di aver partecipato al sequestro della ragazza e ne ha spiegato le fasi tirando in ballo altri tre “illustri” calabresi, Giuseppe Calabrò, Antonio Talia e il boss Giuseppe Morabito. Il 24 settembre 2024 si è aperto il processo contro questi ormai vecchi pensionati del crimine, mafiosi e assassini, che poco – almeno oggi – hanno da scontare di un ergastolo. Eppure, il 4 febbraio 1985, Angelo Epaminonda, potente boss della Milano degli anni 70-80, da collaboratore di giustizia, rivelò al pubblico ministero Francesco Di Maggio del coinvolgimento di Antonio Talia nel sequestro Mazzotti: “Fu proprio Antonio a confidarmelo – si legge nel verbale di Epaminonda – a dirmi che la sua parte, 20 milioni di lire, li aveva sotterrati in un terreno di sua proprietà, in Calabria”. Epaminonda raccontò anche com’era morta la ragazza. È giusto e doveroso ricordare che le sue dichiarazioni, chissà per quale assurdo motivo, caddero nel vuoto. Così com’è giusto ricordare che questi “signori” hanno avuto cinquant’anni per godersi i soldi del riscatto. Cristina aveva solo 18 anni e un ergastolo comminato a distanza di così tanto tempo non serve a niente.
(pubblicato anche sulla Libertà di Piacenza)












