28 luglio 2025. La corte d’appello di Genova si è finalmente pronunciata sull’istanza di revisione della condanna a Mario Vanni. È inammissibile. I giudici liguri hanno stabilito che le asserite nuove prove presentate non sono in grado di cancellare l’ergastolo comminato con una sentenza passata in giudicato nel 2000 all’ex postino. Dunque, in attesa che venga coinvolta la cassazione, niente riabilitazione postuma per uno degli assassini delle coppiette.
A ogni modo, prima di parlare di mosche cadaveriche e di retrodatazione, è necessario fare una noiosa divulgazione di carattere giuridico, non eccessivamente tecnica, ma pur sempre noiosa. Chi non fosse interessato può passare direttamente alla parte in cui viene ribadito che Pacciani, Vanni, Lotti e altri sono i Mostro di Firenze e che la poca verità storica emersa su quei fatti paurosi, come la stessa testimonianza di Lotti, non le si opacizza mica a colpi di istanze, scommesse procedurali o elasticizzando la realtà.
1. La revisione
La revisione della condanna (della condanna: non del processo) è un istituto pensato dal legislatore per eliminare gli effetti giuridici e solo questi di una sentenza che è palesemente (palesemente!) ingiusta, e non è un quarto grado di giudizio che offre la chance di celebrare daccapo i processi sgraditi ai condannati – o ai loro parenti e avvocati, o all’opinione pubblica più suggestionabile (vedi Erba). Soprattutto, poi, la revisione non è un ulteriore processo sugli stessi eventi già sottoposti al vaglio di un giudice, poiché deve esserci qualcosa non solo di clamoroso, ma anche di nuovo: il principio giuridico e di civiltà del Ne bis in idem vieta la ripetizione di un giudizio per i medesimi fatti.
L’istituto della revisione è un mezzo di impugnazione straordinario attivabile solo in presenza di uno dei casi tassativi previsti dall’art. 630 cpp. Uno di questi – comma I, lettera c) -, quello che qui interessa, dice che, affinché l’istanza sia ammissibile devono esserci prove nuove sopravvenute alla formazione del giudicato che, “sole o unite a quelle già valutate”, siano in grado di dimostrare l’innocenza, e solo questa, del condannato. In caso di ammissibilità, poi, un secondo giudice avrà la cognizione piena nel processo di revisione vero e proprio, ma quello che è chiamato a decidere sull’istanza di revisione, sintetizzando al massimo, invece, opera così: se la prova è nuova, l’istanza è ammissibile, se non è nuova, emana ordinanza di inammissibilità; se non è nuova, ma, pur preesistente non è stata acquisita e valutata ai fini della condanna, l’istanza è ammissibile, se invece la prova è già stata oggetto di cognizione anche solo implicita per la decisione di condanna, emana ordinanza di inammissibilità.
Si intuisce, allora, che la decisione sull’ammissibilità o meno dell’istanza di revisione ruota intorno al significato di nuova prova e all’ampiezza della cognizione che il giudice opera su di essa.
1.1. Prova nuova sopravvenuta e prova preesistente non valutata
La cassazione ha allargato il perimetro di questo concetto fino a considerare nuove e sopravvenute anche quelle prove che, come accennato poco sopra, pur preesistenti o addirittura acquisite in giudizio, non erano state oggetto di valutazione espressa o implicita da parte del giudice di cognizione. Inoltre, fermo restando tutto quanto sopra detto, rientra nel concetto di prova nuova anche la diversa valutazione di un fatto già noto se questa è stata ottenuta con metodologie scientifiche più evolute, a patto però che “i risultati forniti non siano raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili”. Pertanto, non è sufficiente che la nuova tecnologia sia genericamente più “moderna” ed evoluta in termini assoluti, ma è necessario che lo sia anche e precisamente in relazione a quel “nuovo” risultato che la “vecchia” tecnica non era stata in grado di ottenere.
1.2. Fase rescindente: giudizio prognostico e perimetro di cognizione del giudice
Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, nella fase cosiddetta rescindente, il giudice dell’istanza di revisione deve operare una ricognizione della nuova prova, o della prova preesistente ma non valutata, mettendola in relazione all’intero quadro probatorio che ha determinato la condanna e non, dunque, parcellizzando il suo giudizio sull’elemento singolo isolato dal resto. Ciò significa che questi deve valutare se la nuova prova possegga in astratto l’idoneità per superare le evidenze poste alla base del giudizio di colpevolezza, quindi di ribaltare la sentenza di condanna. E per capire se il nuovo elemento che fonda l’istanza di revisione ha la potenzialità di annientare gli effetti di un giudicato, il giudice che decide sull’istanza di revisione è chiamato a verificare l’intero quadro probatorio alla luce dell’allegazione dei nuovi elementi. In altre parole, pur senza anticipare una valutazione nel merito – che è riservata all’eventuale giudizio di revisione vero e proprio, in ossequio alle regole del contraddittorio – deve conoscere strutturalmente e in maniera approfondita il quadro probatorio preesistente che ha condotto alla condanna. E allora, sempre senza che sia autorizzato ad anticipare il giudizio sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, la domanda che il giudice dell’istanza si pone, da un’angolatura teleologica, è la seguente: la nuova prova, da sola o unitamente al resto, è potenzialmente in grado di modificare la valutazione complessiva delle altre prove, è in grado, cioè, di superare quella che in giurisprudenza e in dottrina è chiamata “resistenza del giudicato”, qualora dovesse essere sottoposta alla revisione vera e propria? Se la nuova prova, o la prova preesistente non valutata, secondo questo strutturato giudizio prognostico non possiede i requisiti che potenzialmente sarebbero in grado di portare all’assoluzione, e solo a questa – non a una diminuzione della pena -, il giudice emana ordinanza di inammissibilità.
2. L’istanza: larve cadaveriche, nuove tecniche e retrodatazione
L’istanza di revisione della condanna di Mario Vanni era fondata principalmente su una perizia che, usufruendo di tecniche scientifiche più evolute, è giunta a conclusioni divergenti rispetto a quelle già operate nel processo ai Compagni di merende. Si tratta dell’annosa questione dello stato delle larve delle mosche cadaveriche sui corpi di Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili, vittime del Mostro di Firenze a Scopeti nel settembre del 1985, e della datazione di quel duplice omicidio.
Secondo gli esperti nominati dagli avvocati del nipote di Vanni, le larve presenti sulle due salme sarebbero così grosse, cioè in stato così avanzato di crescita, da poter affermare che il momento della morte della coppia fosse da anticipare di circa quarantotto ore rispetto a quanto stabilito dall’anatomopatologo professor Mauro Maurri, colui che con la sua équipe ebbe l’incarico di periziare i corpi presso l’istituto di medicina legale, immediatamente dopo la scoperta di quel duplice omicidio. In sostanza, la nuova prova sopravvenuta consisterebbe nel fatto che il delitto è avvenuto venerdì 6 e non domenica 8 settembre.
Nulla di nuovo, in realtà, quantomeno nella letteratura cosiddetta mostrologica, dove questa tematica, col supporto di alcuni entomologi, era stata infaticabilmente promossa già diversi anni fa da variegati generosi commentatori di questa vicenda, – prima che un piccolo terremoto scombussolasse antiche alleanze interne al nervoso fronte del revisionismo storico sui fatti del Mostro di Firenze. Una tematica divisiva nelle premesse, nel metodo e nelle conclusioni e che per tale ragione si era presto trasformata in una battaglia tutta ideologica e poco scientifica: per un lungo periodo di tempo si era ingenuamente creduto, e lo si era gridato in ogni sede possibile, che questa cosa delle larve e della differente datazione del delitto fosse in grado di cambiare le responsabilità dei condannati per i fatti del Mostro. Eppure, senza un’eccessiva fatica, la questione era stata presto disinnescata, sempre in sede di commento e letteratura, da netti pareri contrari di altri entomologi (forensi, però, e un po’ meno ideologici di altri). In breve: all’originaria e originale crociata “carnaria” si era controbattuto adducendo che non si poteva pretendere di stabilire con certezza scientifica lo stato di una larva sulla base dell’osservazione di una fotografia, per giunta pure sgranata e a sua volta scannerizzata e digitalizzata: non era e non è, quello, un metodo scientifico, perché per arrivare a una conclusione del genere, come minimo e banalmente, sarebbe occorso, boh, un microscopio, dei vetrini, avere le larve fisicamente a disposizione in un laboratorio. Perché, finché si trattava di fare possesso palla per impressionare i mostrologi della Rete, poteva anche andare bene far vedere su Youtube i crop digitali di un’immagine originariamente analogica e misurare a spanne e a occhio nudo le dimensioni dell’embrione o della larva o della mosca cadaverica, e costruirci sopra un dibattito con toni da luminare, ma il passo successivo, quello di stabilire con certezza scientifica che uno di quei puntini neri sgranati corrispondesse a un instar 1, 2 o 3 per una consulenza destinata a finire sul tavolo di un giudice al quale veniva chiesto di riscrivere un pezzo di storia grande del Mostro di Firenze, ecco, questo significava tirare in porta da centrocampo subito dopo il fischio d’inizio. (Una volta Mauro Icardi l’ha fatto e ha preso la traversa!).
Posto ciò, nessuno, qui, mette in dubbio quanto dichiarato dagli avvocati del nipote di Mario Vanni, e chi scrive è certo che quei consulenti abbiano utilizzato per davvero delle “nuove tecniche scientifiche” per giungere a quelle conclusioni; che non abbiano, in sostanza, misurato a sentimento gli insetti, anche perché proprio questo fatto dell’evoluzione tecnico-scientifica dei mezzi di osservazione delle larve sui cadaveri di cui si sono avvalsi i proponenti è l’unica vera novità di tutta l’istanza.
Evidentemente, però, questa evoluzione tecnologica non è stata in grado di aggiungere nulla. Sul punto, la Corte d’appello di Genova ha demolito la nuova perizia entomologica con termini piuttosto netti: è “meramente esplorativa”; cioè non ha fornito conclusioni certe ma nuove possibilità, verrebbe da dire. Una perizia che allora, sulla base di tutto quanto spiegato sopra, non potrebbe di certo modificare il quadro probatorio relativo al momento esatto della morte di Mauriot e Kraveichvili. Quadro probatorio sulla datazione del delitto di Scopeti che per l’appunto, infatti, sempre per Genova – anche per Genova – è “assolutamente univoco e granitico”. Una bella botta per i retrodatatori.
Tuttavia, lo si immagina, avrà pesato non poco per il rigetto anche il fatto che gli odierni scienziati consulenti del nipote di Vanni, nuove tecniche o meno, non abbiano potuto periziare i corpi sui quali si erano formate quelle larve cadaveriche, come invece poté fare, per esempio, il professor Maurri sul tavolo autoptico, nel 1985.
A ogni modo, in attesa di leggere per intero le motivazioni del rigetto della Corte d’appello di Genova, può intanto dirsi che, poiché, come accennato sopra, nell’originario giudizio era già stata operata espressamente una valutazione intorno alla datazione della morte dei francesi, il parere entomologico a fondamento dell’istanza di revisione che opta per la retrodatazione del delitto non rappresenta una nuova prova sopravvenuta, ma una semplice – ulteriore – valutazione che, pur basandosi su tecniche asseritamente più avanzate, interviene sul punto suggerendo molto banalmente una conclusione diversa. A ciò va aggiunto che, dunque, in ragione del giudizio prognostico operato dal giudice, una volta calata nel quadro probatorio nel suo complesso, questa diversa conclusione non avrebbe comunque potuto generare il ribaltamento della sentenza di condanna a Mario Vanni. Quindi, in estrema sintesi, la “prova” prodotta non è nuova, è già stata valutata e non avrebbe portato all’assoluzione.
Tuttavia, come si era già capito ancora prima che intervenisse il rigetto dei giudici di Genova, le possibilità che l’istanza di revisione potesse soddisfare i criteri di ammissibilità stabiliti dall’art. 630 cpp e i requisiti imposti dalla giurisprudenza della Suprema corte erano già nulle sin dall’origine. Ma dirlo adesso lascia il tempo che trova.
Per concludere, è decisivo ribadire che il giudice che si è espresso sull’istanza ha avuto l’obbligo precipuo di conoscere strutturalmente il complesso delle prove preesistenti unitamente all’asserita nuova prova sopravvenuta, e che pertanto la sua cognizione onnicomprensiva non solo è stata necessaria e funzionale per il giudizio prognostico ma anche per la formulazione della motivazione stessa sull’ammissibilità o, come in questo caso, sul rigetto, non rappresentando questo tipo di attività, in alcun caso, un’anticipazione sull’eventuale, successivo giudizio sul merito – come invece è stato sostenuto a caldo dagli stessi avvocati del nipote di Vanni. Ma sul punto, deciderà la cassazione.
3. Il teorema Lotti
Ma cosa cambierebbe nella ricostruzione del delitto di Scopeti e nella giustezza della condanna all’ergastolo per Mario Vanni e gli altri se il duplice omicidio venisse retrodatato dall’8 settembre, data “ufficiale”, al 7 o addirittura al 6 settembre?
Il teorema o, per meglio dire, il pregiudizio di chi ha promosso l’istanza di revisione, e prima di costoro di tutta la mostrologia negazionista innocentista, è che la testimonianza di Giancarlo Lotti sia falsa, o comunque che egli sia un testimone e reo confesso non genuino. Lotti, nel quadro delle sue complesse confessioni con annessa sconquassante chiamata in correità di Pacciani e di Vanni, colloca il delitto alla sera di domenica 8 settembre, cioè nella stessa forbice di tempo suggerita dal medico legale Maurri e a cui gli inquirenti prima e la magistratura poi si erano sempre rifatti. Spostare indietro nel tempo di uno o due giorni l’esatto momento della morte di Mauriot e Kraveichvili, secondo questa interpretazione fideistica e meccanicistica insieme significherebbe pertanto far crollare l’intero impianto accusatorio della procura promosso al processo e accolto dai giudici. Il che, detto in parole povere, starebbe a dimostrare che Lotti mente e che Vanni e Pacciani sono innocenti.
Ma non è così. Eliminando dal discorso la sgangherata ipotesi sulla retrodatazione a venerdì 6, che più che una ragionata proiezione scientifico-investigativa sembra piuttosto una provocazione ideologica e intellettuale, un provare a sedersi al tavolo di un’immaginaria trattativa con l’atteggiamento spregiudicato di chi chiede il 6 per ottenere e accontentarsi del 7, anche aprendo alla possibilità, beninteso tutt’altro che dimostrata ma tuttavia non inverosimile, che il delitto di Scopeti fosse avvenuto la notte di sabato 7 settembre, il racconto di Giancarlo Lotti, nella sua sostanza e nei suoi protagonisti, non cambierebbe. Come non cambierebbe la parte piccola di verità su questa epopea criminale di cui disponiamo, e cioè che Pietro Pacciani e Mario Vanni sono i responsabili di alcuni dei delitti del Mostro di Firenze. E allora, alla luce di questo preconizzato e per certi versi scontato rigetto che potrà, sì, impegnare il tempo anche di altri – e alti – magistrati ma che non sarà in grado di cambiare la Storia, occorre ribadire, oggi più di ieri, la centralità di San Casciano in Val di Pesa, epicentro geografico e antropico in cui maturarono i delitti del Mostro, e di tutti gli individui coinvolti a qualsiasi titolo nelle indagini su quei paurosi fatti.
To be continued…












