Negli anni ’60 e ’70 in TV comparvero gli “sceneggiati“, e gli italiani impararono a sognare davanti a uno schermo mentre guardavano storie romantiche. Negli ’80 fu la volta delle serie tv americane, storie che avevano ancora qualcosa di romantico, ma riguardavano soprattutto famiglie ricche, modelli sociali vincenti, così gli italiani oltre cha a sognare, impararono anche ad amare i soldi, a rincorrere lo status, e perché no, a disprezzare la miseria quel tanto che basta.
Per quanto riguarda il calcio, ogni cittadino italiano che segue questo sport, uomo o donna che sia, oltre a essere un tifoso, è di fatto un potenziale commissario tecnico.
Fu negli anni ’90, esattamente nel 1994, ai tempi del processo Pacciani che si celebrò con le telecamere presenti in Aula, che gli italiani si convinsero di poter essere anche Avvocati, Pubblici Ministeri e Giudici. O semplicemente tifosi, appartenenti alla “curva” innocentista o a quella colpevolista.
Un giorno in Pretura, fortunatissimo programma di Rai 3, trasmetteva in presa diretta le varie fasi del dibattimento, e tutto era vero. Una sorta di Reality chiamato “Processo Pacciani” in cui gli attori non erano attori, i morti però erano morti per davvero e il “Mostro” era un contadino che assomigliava molto, forse troppo, ai telespettatori. Un povero “lavoratore della terra agricola“, come amava definirsi, che non faceva altro che lavorare e “non aveva tempo neanche di allacciarsi le scarpe“, tanta era la fretta di andare a faticare.
Questo pover’omo “innocente come Dio sulla croce“, che evidentemente sapeva pizzicare le corde giuste degli Italiani, spaccò in due l’opinione pubblica: da una parte gli innocentisti (sempre in maggioranza) e dall’altra i colpevolisti.
Molti sono gli italiani che ancora oggi, proprio “non ce lo vedono” quel povero contadino nei panni di un killer, forse perché assomiglia un po’ troppo alla figura del nonno ideale, tutto terra,lavoro e saggezza, o forse perché non è abbastanza estraneo per incarnare la figura del Mostro: troppo simile al consueto, al familiare, al normale, per puntargli il dito contro senza puntarlo anche verso se stessi. Troppo poco “altro“.
Tra gli innocentisti spiccano sicuramente quelli convinti che (proprio non se lo tolgono dalla testa), il Mostro era un sardo. Anzi no, forse era suo fratello. Ma i due fratelli sardi candidati al ruolo di Mostro avevano un altro fratello, possibile candidato, che fare? Escluderlo? Tre candidati sono troppi? No, meglio tenere anche il terzo, non si sa mai. I sardi sono intercambiabili. Non importa chi, basta che sia sardo.
La pista sarda, riassunta in modo (quasi) paradossale, rimane in piedi ufficialmente dal 1982 al 1989, e secondo un certo punto di vista ha rappresentato proprio una via efficace per attribuire la colpevolezza agli “altri“. La comunità sarda nei dintorni di Firenze rappresentava l’estraneità a portata di mano, pronta all’uso.
I sardisti, nonostante tutto, ancora oggi resistono, vivono in piccole comunità semi anonime, il loro mito è Salvatore Vinci (che secondo loro è ancora vivo da qualche parte e presto tornerà), sono da sempre in via di estinzione, ma sopravvivono comunque, come i panda, e senza l’aiuto del WWF.
Troviamo poi gli innocentisti “a prescindere“, riuniti in una comunità sicuramente più nutrita di quella dei panda-sardisti, ma comunque dipendenti dal concetto di “altro“, che sono costretti a ricercare non nel mondo reale, bensì in quello letterario, fumettistico o cinematografico.
Gli innocentisti, quasi sempre “serial-killer-unicisti” vedono il Mostro di Firenze come una sorta di Jack the Ripper all’italiana, un eroe negativo (preferibilmente bello), imprendibile perché troppo intelligente, o magari come misterioso individuo in calzamaglia nera, che dopo aver colpito va a noscondersi in qualche rifugio segreto, o semplicemente come un assassino che dopo aver ucciso come se fosse un invasato, torna in sè e si dirige verso casa, nella quale vive con sua madre, come ogni Psycho-killer che si rispetti.
Vale anche la pena ricordare quella che non possiamo definire pista, e nemmeno comunità, ma piuttosto una convinzione, da cui scaturisce un dogmatico approccio interpretativo, che consiste nel vedere il Mostro come un “Uomo dello Stato” insospettabile, non indagabile e imprendibile, che in quanto tale, non può essere che il Mostro. A patto che rimanga anonimo e inafferrabile. Un Mostro che si rivela tramite la sua assenza…
Tale convinzione, posta (anzi imposta) come premessa non dimostrata, genera inesorabilmente un ragionamento circolare che si autolegittima, in cui premessa e conclusione coincidono. Su questa banalissima fallacia logica, si basa la maggior parte dei ragionamenti di coloro i quali, da oltre trent’anni, cercano (invano) di fornire verità alternative sulla vicenda Mostro di Firenze, tramite TV, carta stampata e social network.
Tornando al rozzo contadino di Mercatale, non si può che riconoscere la sua facoltà innata di saper bucare lo schermo; i suoi messaggi avevano, e ancora hanno, un forte impatto su chi li ascolta. Potremmo definirlo un influencer ai tempi del telefono a gettone, quando internet e i social erano solo visioni di un futuro incombente; i suoi messaggi sapeva spararli condensati in frasi brevi guardando verso la telecamera, oppure distribuirli sapientemente per formare una storiella tragicomica, come fece in occasione della sua dichiarazione spontanea davanti alla Corte e, soprattutto, davanti alle telecamere presenti in Aula.
Il Processo Pacciani si rivelò immediatamente un evento mediatico. Tramite le telecamere presenti in Aula milioni di italiani e italiane da curiosi spettatori presto cominciarono a immedesimarsi nell’imputato, a improvvisarsi Avvocati difensori o Pubblici Ministeri, arrivando a sostituirsi addirittura al Giudice per emettere la propria sentenza, quella “vera“, del tribunale (del popolo) dei telespettatori.
Le riprese audiovisive dei dibattimenti, la presenza (non sempre discreta) degli obiettivi delle telecamere nelle udienze, induceva sia difensori che accusatori a una sorta di autocontrollo, a frenare le tentazioni di abusare (non sempre) del gergo forense, ma la consapevolezza di essere visti e sentiti da un vasto pubblico, forniva loro anche la possibilità di rivolgersi non solo alla Corte, ma anche alle telecamere, quindi direttamente ai telespettatori.
Ascoltando gli audio dei dibattimenti che riguardano i processi del Mostro di Firenze, integralmente disponibili in rete, è evidente, secondo il modesto e non autorevole parere di chi scrive, che l’Accusa si rivolgeva alla Corte, mentre la Difesa si rivolgeva alle telecamere presenti in Aula. Se l’Accusa contribuì in modo determinante alla formazione del libero convincimento del Giudice, la Difesa convinse la maggior parte degli italiani-telespettatori che seguivano i processi attraverso lo schermo di una TV.
Oggi, a circa trent’anni dai processi del Mostro di Firenze, pochi saprebbero citare passaggi di una requisitoria del Pubblico Ministero Paolo Canessa, ma la maggior parte delle persone che conoscono questa triste vicenda anche solo per sentito dire, invitate a esprimere un’opinione personale, senza indugi risponderebbero con:
-“Ma ti pare che quattro ubriaconi di paese possano aver commesso quei delitti…” (come se un killer che si rispetti prima debba dimostrare di essere astemio);
-“Non ce lo vedo il Pacciani, era un povero contadino che lavorava dalla mattina alla sera“, (il Pacciani che passò quasi vent’anni in carcere e da lavoratore saltuario, quando era fuori, c’erano periodi in cui lavorava solo per una ventina di ore in un mese);
-“Lotti è inattendibile, era uno che correva verso il bosco a vedere gli alieni appena atterrati…” (storiella di paese che ancora oggi molti si ostinano a vedere coinvolto il Lotti, ma che in realtà riguardava un pittoresco personaggio di San Casciano, vittima di uno scherzo di paesani buontemponi);
– “Lotti era un povero oligofrenico...” (Il Prof. Marco Lagazzi e il Prof. Ugo Fornari, i quali in data 16/9/96 sottoposero il Lotti ad accertamenti clinici, criminologici e psichiatrico-forensi, lo definirono un soggetto in cui “Non si rilevano segni di deterioramento mentale, come attestato dalla vivacità e non esauribilità dell’attenzione, dalla modulazione del pensiero, dalla prontezza e pertinenza delle risposte, dalle capacità di analisi e critica“).
Questa è solo una piccola parte delle numerose “pillole mostrologiche” pronte all’uso, scorciatoie del pensiero con effetto immediato, materiale fornito in microdosi che da oltre trent’anni circola nell’opinione pubblica, slogan confezionati ad arte che oggi, nell’era social, si rivelano utilissimi, perfettamente compatibili con la logica quantitativa dei like, che premia i contenuti brevi che sappiano raggiungere la pancia, e non la testa degli utenti.
Non possiamo far altro che prenderne atto: L’Accusa convinse la Corte. La Difesa convinse, e continua a convincere la maggior parte dell’opinione pubblica.
Non abbiamo citato la “curva” colpevolista, quella composta da forcaioli con la bava alla bocca, che altro non sono che innocentisti al contrario. Non ci interessano.
Chi rimane? Difficile dirlo. Probabilmente coloro i quali sono ancora così “audaci” da ascoltare una requisitoria di quattro ore del PM Paolo Canessa, prima di esprimere anche una sola opinione sulla vicenda del Mostro di Firenze, consapevoli del fatto che ogni certezza deve superare l’ostacolo di mille dubbi.












