Quello che, nella notte del 13 ottobre scorso, ha scosso dal torpore il sonnacchioso sobborgo rurale del veronese non è stata solo un’esplosione.
È stata la deflagrante certezza che la follia – non quella gioconda che accompagna i momenti più estatici dell’essere umano – ma quella lombrosiana, impersonificata in grotteschi soggetti, costituisce ancora un’imperscrutabile ma indiscussa forma di potere.
I tre fratelli Ramponi, inquilini disadattati di un casolare di campagna altrettanto preistorico, privo di acqua e luce, non sono i tre porcellini della nota favola a lieto fine ma i balordi e maldestri assassini di una società per la quale nutrivano profondamente paura e quindi, nel loro codice, odio.
In quell’anfratto rurale. depresso. la realtà non era più un’ospite da tempo fino a diventare indesiderata quando si palesava nell’unica forma possibile, quella dell’ufficiale giudiziario, che bussava inesorabilmente alla loro porta.
Tutto intorno lo spazio non era spazio reale e il tempo non era tempo reale.
Sì, perché lo spazio psicologico deve contenere concetti come confine, distanza ma allo stesso tempo anche il suo complementare. E nella prossimità c’è la relazione, il buon vicinato, il baretto in fondo alla strada dove si gioca a briscola e che fa ancora negozio di alimentari, dove ci si ritrova anche solo per ricordarci che siamo vivi.
E poi c’è il tempo, scandito dagli impegni quotidiani del presente ma anche quello che è fatto di memoria del passato e di progettualità per il futuro. Il tempo reale trascorre inesorabile e non lascia nulla di invariato da un anno all’altro.
Niente e nessuno può essere uguale a se stesso al passare del tempo, è contro il principio di realtà alla base delle cose, e se lo è di certo non dipende da un’illusione della medicina estetica.
Per i tre fratelli, tutti sessantenni, lo spazio e il tempo sono stati messi fuori dalla soglia di quel feudo decaduto, animato solo da una forma di vita bovina, forse in passato simbolo di una perduta prosperità familiare. Fra loro c’è anche una sorella, la cui femminilità costituisce quasi un incidente genetico all’interno di una fratria rivelatasi incapace di evolversi e disinvischiarsi dal ceppo familiare per crearsi una propria vita, proprio come i tre porcellini, fatta di normale bisogno di relazioni e ricerca di gratificazione. Impossibile non chiedersi, in quel deserto relazionale, quali forme di amorfa sessualità possano essersi insediate fra quelle mura impenetrabili, che non vedevano mai anima viva. L’isolamento prolungato, ci ricorda la scienza, non si accompagna quasi mai a manifestazioni esistenziali sane, specialmente se volontario.
Più specificamente, l’auto-alienazione rappresenta un tratto personologico altamente disfunzionale tipico di quadri di personalità particolari, in cui il contato con gli altri è vissuto come altamente minaccioso per l’equilibrio. All’esterno esso fa apparire i soggetti come “strani”, eccentrici, taciturni, disinteressati alle relazioni intime e sociali, che vengono circoscritte ai soli familiari. Nel quadro schizotipico, poi, al ritiro sociale si aggiunge la presenza di sospettosità e idee di riferimento.
Tale etichetta aderisce perfettamente ai componenti agricoltori della “banda Ramponi”, descritti da tutti come “invisibili” e inavvicinabili, salvo sporadiche sortite finalizzate alla rivendicazione dell’ingiustizia a loro parere subita in quel lontano 2012, anno in cui uno di loro provocò la morte di un passante con il proprio trattore e il loro tempo si è fermato.
Lì è nato il loro corale e delirante pensiero di rovina, che fedele e uguale a sé stesso negli anni, si è opposto ai necessari cambiamenti e allo sforzo di adattamento suggerito dall’esterno ad una realtà che è sempre stata rifiutata.
Esemplare in tal senso è la surreale naturalezza con cui una allucinata Maria Luisa Ramponi spiega ai microfoni di un giornalista il proprio modo di impedire lo sgombero del casolare, come tirare un petardo. L’intervista era esattamente di un anno fa ma quell’intento suona oggi come un disco rotto, che avrebbe potuto egualmente appartenere al giorno precedente all’esplosione, in cui proprio quella strana e grottesca creatura innescava, sotto al suo logoro cappello, il marchingegno mortale che ha causato la strage. Una strage non solo di innocenti ma anche e soprattutto simbolica, l’espressione di un’impotenza tornata drammaticamente attuale di fronte alle insidie nascoste della malattia mentale.
A fronte di una rinnovata incapacità di trovare una valida alternativa agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nella diagnosi, la cura e la gestione sicura di soggetti affetti da gravi disturbi di personalità, si continua ad affidarsi alla saggezza del giorno dopo, giacché nella premonizione ha fallito.












