Pamela Genini: la legge c’era, lo Stato no.

Il 4 settembre 2024 Pamela Genini si era presentata da sola al pronto soccorso di Seriate. Aveva ventinove anni, un dito rotto, graffi sulle gambe, il volto stanco di chi ha già pianto abbastanza. Raccontò ai medici di essere stata aggredita dal suo ex compagno, Gianluca Soncin. Una lite, l’ennesima, finita a terra tra calci e pugni. Aveva già tentato di allontanarsi da lui, ma tornava sempre la paura.
Quel giorno, come prevedono i protocolli, i sanitari compilarono il questionario per la valutazione del rischio. Le domande erano cinque, dirette, semplici. Pamela rispose “sì” quasi a tutte. Lui l’ha picchiata? Sì. L’ha minacciata? Sì. Teme che possa ucciderla? Si. Era sufficiente per far scattare la procedura di protezione. Non accadde nulla.
Un anno dopo, nel settembre 2025, Pamela Genini è stata trovata senza vita, colpita da decine di coltellate. Il suo assassino è sempre lui, Gianluca Soncin, lo stesso uomo che lei aveva indicato ai medici e alle forze dell’ordine dodici mesi prima. La differenza è che, nel frattempo, nessuno aveva fatto ciò che la legge imponeva.
Da quasi due anni, in Italia, esiste una delle normative più avanzate in materia di contrasto alla violenza di genere: la legge n. 168 del 2023. Un impianto normativo pensato per colmare le lacune del cosiddetto Codice Rosso e rendere più rapida la protezione delle vittime. Sulla carta è un meccanismo perfetto. Prevede l’ammonimento d’ufficio del Questore anche senza denuncia, le misure di vigilanza dinamica del Prefetto in caso di rischio di reiterazione, la possibilità di applicare la sorveglianza speciale ai soggetti violenti, l’obbligo per il pubblico ministero di decidere in tempi brevissimi sulle misure cautelari. C’è tutto: il controllo, la tutela, la prevenzione, la formazione, perfino il braccialetto elettronico.
Nelle conferenze stampa si parlò di “svolta culturale”.
Nei comunicati ministeriali si citò il “nuovo modello di protezione integrata”.
Eppure, nei pronto soccorso, nelle questure e nelle stazioni di provincia, a volte quelle stesse leggi restano appese ai muri come manifesti, belle da leggere ma difficili da mettere in pratica.
Nel caso di Pamela Genini gli strumenti c’erano tutti. C’era un referto medico con diagnosi di lesioni e prognosi di venti giorni. C’era una descrizione dettagliata dell’aggressione, l’identità dell’autore, le minacce, il riconoscimento del rischio elevato. Bastava questo per:
• Attivare il Codice Rosso. La procedura prevede che la notizia di reato venga trasmessa immediatamente alla Procura, che deve sentire la vittima entro tre giorni. Nessuno lo fece.
• Disporre l’ammonimento d’ufficio. Il Questore può farlo anche senza denuncia. Il referto bastava. Nessuno ne ha fatto richiesta.
• Segnalare il caso al Prefetto per la vigilanza dinamica. Pattugliamenti, contatti diretti, monitoraggio: uno strumento pensato per proteggere chi è a rischio alto. Mai attivato.
• Inserire l’episodio nel sistema “Scudo”. È la banca dati delle forze dell’ordine per monitorare questi fenomeni e la loro reiterazione. Il nome di Pamela non è mai entrato nel sistema.
• Valutare la sorveglianza speciale dell’aggressore. Nessuno la propose.
Era tutto previsto, tutto scritto, tutto possibile. Eppure, nulla di tutto questo è stato fatto.
La verità è che, nel nostro Paese, le leggi più belle spesso sono anche le più disattese. Vengono annunciate con orgoglio, celebrate nei convegni, accompagnate da slide e campagne di sensibilizzazione. Ma quando la vittima entra in un pronto soccorso, in un commissariato o in una stazione dei Carabinieri, quella legge si smaterializza, si dissolve nei meandri di un sistema troppo fragile per sostenerla.
Le ragioni di questa distanza sono molte. Alcune strutturali, altre culturali. Tutte, però, tragicamente prevedibili.
• Mancanza di formazione. Le norme cambiano in fretta, ma chi le deve applicare non viene formato abbastanza. Una legge, se non sai usarla, è uno strumento inutile.
• Sovraccarico e carenze di personale. Negli ospedali, nelle questure e nelle stazioni di provincia, il personale è ridotto all’osso. Chi è di turno deve gestire referti, denunce, chiamate, arresti, burocrazia quotidiana. Seguire un singolo caso come la legge impone significa ore di lavoro, incroci di competenze, documenti. Quando hai cento fascicoli aperti e una sola persona a gestirli, l’efficienza diventa un lusso.
• Burocrazia e rigidità procedurale. Ogni misura di tutela è vincolata a una serie di passaggi formali: relazioni, annotazioni, informative, moduli, autorizzazioni. Un meccanismo che, in teoria, serve a garantire rigore e trasparenza, ma che nella pratica diventa un labirinto burocratico dove basta un passaggio mancato perché tutto si fermi.
• Disimpegno e inerzia personale. Poi c’è l’altra faccia, quella più scomoda: la negligenza. Il “non tocca a me”, il “tanto poi si mettono d’accordo”, il “sto per finire il turno e devo partire, vedremo domani”. Non riguarda tutti gli operatori, certo, ma sono atteggiamenti abbastanza diffusi da rendere la catena fragile.
• L’ultima falla è la più profonda, perché riguarda molti aspetti della vita pubblica del nostro paese: l’assenza di un vero principio di responsabilità da cui discendano conseguenze. Quando un codice rosso non viene attivato, un ammonimento non viene disposto, una segnalazione non parte, nessuno risponde di quell’omissione. Non esistono sanzioni penali o disciplinari effettive, né controlli reali. Si parla di “errore umano”, di “valutazione errata”, di “tragedia imprevedibile”. Ma se nessuno paga mai per ciò che non fa, ogni norma diventa opzionale. E la catena si spezza sempre nello stesso punto.
Quindi la legge, in questo caso la 168 del 2023, non è il problema. Anzi, si tratta di uno strumento moderno, equilibrato, costruito su anni di esperienza e di errori. Il problema è la distanza tra il legislatore e chi deve tradurre la legge in azione. Una distanza fatta da carenze strutturali e di organico, di disorganizzazione, ignoranza, poco senso del dovere. Un muro di gomma contro cui rimbalzano i buoni propositi e i nomi delle vittime.
Pamela Genini non è morta per mancanza di leggi. È morta per mancanza di applicazione. È morta in quella zona grigia dove le norme si perdono tra un ufficio e l’altro, dove tutto è previsto ma nulla viene fatto. Ed è morta sapendo di essere in pericolo, perché l’aveva detto, scritto, firmato. Le sue parole, “temo che possa ammazzarmi”, non sono state un presagio, ma una richiesta di aiuto rimasta inascoltata.
Ogni volta che un nuovo caso di femminicidio scuote l’opinione pubblica, le istituzioni ripetono la stessa formula: “faremo di più, non accadrà mai più”. Ma finché le leggi restano annunci e i protocolli restano sulla carta, accadrà ancora. Perché le leggi, anche le più belle e illuminate, sono vive solo se qualcuno le usa. E se nessuno le usa, allora restano ciò che sono: carta straccia.

 

Author: Antonio Fusco

Laureato in Giurisprudenza e in Scienze delle pubbliche amministrazioni, ha conseguito il Master di secondo livello in Criminologia Forense ed è iscritto alla Società Italiana di Criminologia. Quale Dirigente della Polizia di Stato, attualmente in quiescenza, si è occupato di indagini di polizia giudiziaria, investigazioni e contrasto alla criminalità. Scrive romanzi crime per Giunti (serie delle indagini del commissario Casabona) e per Rizzoli (serie delle indagini dell'ispettore Massimo Valeri - l'Indiano). Alcuni dei suoi libri sono stati tradotti in Germania, Grecia e Turchia.

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