La legge del padre

Rocca di Papa, una delle città dei Castelli Romani, zona non distante dalla periferia sud-est di Roma, è stata il teatro di una tragedia tanto atroce quanto fulminea, capitolo finale di un’attesa silenziosa durata cinque lunghi anni in cui un padre ha nutrito il suo sangue e la sua anima solo con il rancore. E con la sua delirante voglia di giustizia.
Il giorno 8 Luglio 2025 Franco Lollobrigida, un ragazzo di 35 anni, camminava sotto il sole nei dintorni della piazza centrale della città. Cinque anni prima, il 27 Gennaio 2020, aveva pestato a sangue un suo concittadino, Giuliano Palozzi, il quale, dopo una delicata operazione chirurgica alla testa e quattro mesi di coma, si era spento all’ospedale Umberto I di Roma. Motivo del pestaggio: un debito di venticinque euro legato allo spaccio di droga.
Lollobrigida era stato arrestato quello stesso giorno e portato in carcere, per il reato di tentato omicidio, trasformato in omicidio preterintenzionale dopo la morte del Palozzi. Assolto in primo grado per legittima difesa, Lollobrigida era stato condannato a dieci anni in Appello. Ma era a piede libero a cinque anni dal fattaccio, in attesa della Cassazione.
Una giornata apparentemente normale quell’8 luglio, se non fosse stato per quel padre che da tempo aveva scritto l’atto finale di questa tragedia e non aspettava altro che metterlo in scena, sicuro che dopo cinque anni quella vendetta era fredda abbastanza per essere gustata.
Quel padre si chiama Guglielmo Palozzi, sessantunenne, per vivere fa l’operatore ecologico, attività che alterna a quella di allevatore. Lui ama gli animali. Non sappiamo per quale motivo quel giorno, l’8 luglio, il padre senza più un figlio da cinque anni e quel ragazzo a piede libero in attesa del verdetto della Cassazione si trovavano a pochi metri l’uno dall’altro. Forse il destino lo aveva deciso, attraverso incomprensibili concatenazioni di eventi, o forse il Palozzi se lo era scritto da solo il suo destino e voleva anche metterlo in scena, come un attore di sé stesso.
Sono pochi gli elementi per ricostruire quel momento, ma di sicuro sappiamo che quel giorno fu il Palozzi a vedere il Lollobrigida per primo e non viceversa, perché ebbe il tempo di tirare fuori la pistola che portava con sé, chissà da quanto tempo, puntare e sparare su quel ragazzo che gli aveva portato via il figlio cinque anni prima e che era in attesa del verdetto della Cassazione. Il Palozzi aveva appena emesso il suo.
Dal momento dello sparo le ricostruzioni si fanno incerte. Il proiettile fora un polmone del ragazzo vittima dell’agguato, il quale riesce ancora a camminare seppur con difficoltà. Il padre esecutore non fugge, ora aspetta il suo, di destino. E non sarà di certo lui a scriverlo stavolta.
Qualcuno dirà di “aver sentito” qualcuno, che dalle finestre aveva assistito all’esecuzione, urlare al Palozzi di fuggire, di mettersi in salvo, perché aveva fatto la cosa giusta. Ma in queste circostanze, spesso il “sentito dire” è nient’altro che un “quello che avrei voluto dire io, ma che non ho avuto il coraggio di dire“.
Il ragazzo, ferito, si trascina verso la piazza, una cinquantina di metri più avanti. Qui, si adagia a terra, tra una panchina e un albero, respirando a fatica, fino a spegnersi.
Le persone lì presenti avevano avvertito il Sindaco della città, Massimiliano Calcagni, che dopo aver chiamato un’ambulanza si era precipitato sul luogo dove si trovava il ragazzo in fin di vita e si era unito agli altri lì accorsi, per effettuare le manovre di primo soccorso. Il personale medico, arrivato dopo una decina di minuti, aveva cercato, invano, di rianimare il ragazzo. Non c’era più nulla da fare.
Le forze dell’ordine, giunte sul luogo del triste fatto, si rendono subito conto che per il ragazzo non c’è più nulla da fare. Pochi minuti dopo raggiungono l’autore del folle gesto e lo arrestano, mentre sedeva su una scalinata non molto distante dal luogo dell’omicidio, come se li stesse aspettando. Verrà arrestato senza opporre resistenza. Nessuna traccia della pistola.
Fine dell’atto.
Il Sindaco, lo stesso giorno del fatto, rilascerà un’intervista. Farà la ricostruzione dei fatti così come li aveva vissuti, dichiarerà di conoscere bene papà Palozzi, e che solo mezz’ora prima del fatto aveva preso un caffè al bar con lui. Il primo cittadino, da rappresentante delle Istituzioni condanna il folle gesto, nonostante si percepisca amarezza sul suo viso.
Dopo aver perso il figlio, il Palozzi era divenuto schivo, silenzioso, diranno tutti quelli che lo conoscevano, ma comunque la comunità aveva sempre cercato di stargli vicino, pur rispettando la sua voglia di riservatezza.
Da quel giorno questa storia è tornata a confrontarsi con il silenzio, come chissà quante altre simili in Italia, e a rivivere solo nelle storie di coloro che la raccontano e che la racconteranno, aggiungendo commenti, condannando la droga, la decadenza dei tempi moderni, le forze dell’ordine, la magistratura, il Governo e chissà cos’altro.
Guglielmo Palozzi è ora in carcere, perché così deve essere secondo la Legge, quella giusta e uguale per tutti. Guglielmo Palozzi ha agito secondo quella sbagliata e si è preso le sue responsabilità. Ha agito secondo la legge del Padre.

Author: Maurizio Maglia

Docente di Lingua Italiana per stranieri. Svolge la sua attività sia in Italia che all'estero. È amministratore di un canale YouTube in cui propone spunti di riflessione che riguardano il caso del Mostro di Firenze e l'influenza di questa vicenda sulla società italiana.

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