Mostro di Firenze, DNA, padri segreti e cronaca rosa: nessuna svolta

22 luglio 2025. La notizia è relativa alla vicenda del delitto di Signa del 1968, e riguarda alcuni dei protagonisti della cosiddetta pista sarda, quella che dal 1982 al 1989 ha tenuto occupati inquirenti e giornalisti a cercare ostinatamente il Mostro di Firenze dalla parte sbagliata. Un accertamento sul DNA richiesto dalla procura di Firenze e condotto dal noto genetista Ugo Ricci (vedi Garlasco) ha stabilito che Natale Mele non è il figlio biologico di Stefano Mele, e nemmeno di Salvatore Vinci come si era sempre ipotizzato, ma del fratello maggiore di quest’ultimo, Giovanni.
Di seguito, verrà detto per quale motivo non si tratterebbe di una vera e propria novità capace di ribaltare l’interpretazione del vecchio delitto di Signa, ma, soprattutto, si cercherà di argomentare le ragioni per le quali le pruriginose vicende parentali, sessuali e sentimentali che hanno coinvolto tre famiglie isolane emigrate in continente oltre sessant’anni fa non riguardano minimamente i fatti del Mostro di Firenze.

Un segreto pubblico
Stando a quanto già scriveva nel dicembre del 1989 il giudice istruttore Mario Rotella nella sua tombale sentenza di proscioglimento collettiva per gli indagati (quasi tutti sardi) per i delitti del Mostro, era un fatto noto sia alla famiglia Mele che alla famiglia Vinci, o come minimo veniva presa come una cosa assolutamente plausibile, che Natale potesse essere il figlio non di Stefano Mele, ma di un Vinci, probabilmente di Salvatore. L’ipotesi, in particolare, veniva sostenuta da un elemento abbastanza conducente e riscontrato in un (ancora più risalente: 1986) rapporto investigativo, che indicava quale più papabile dei tre fratelli Vinci per quella paternità il mezzano Salvatore: l’epoca del concepimento del bambino, marzo 1962, corrispondeva infatti proprio al periodo nel quale Salvatore Vinci pare si fosse trasferito a casa di Barbara Locci e in cui il marito di lei, Stefano Mele, fosse impossibilitato a frequentare la moglie, poiché ricoverato in ospedale. A rendere piuttosto verosimile quest’ipotesi, inoltre, c’era (c’è) una somiglianza incredibile tra Salvatore e Natale, da giovane così come da adulto.
Insomma, nessuna novità che il padre non fosse Stefano Mele. E nessuna novità che il padre fosse uno dei Vinci. Ma, a ben vedere, non è così clamorosa nemmeno la circostanza che il padre biologico di Natale fosse Giovanni Vinci, e non Salvatore. È noto infatti che Barbara Locci, la mamma di Natalino, avesse avuto una relazione sentimentale e sessuale anche con Giovanni, ancora prima che si legasse al mezzano Salvatore e poi al minore Francesco, gli altri due fratelli di Giovanni.
Va detto, tuttavia, che Giovanni Vinci, nonostante un passato opaco e sporcato da più di un precedente penale, alcuni contro il patrimonio, altri per davvero odiosi (quando ancora abitava in Sardegna, era stato processato e poi assolto per il reato di incesto) non era mai stato coinvolto né dalle antiche indagini su Signa immediatamente dopo il delitto né in quelle, più strutturate e per certi versi caotiche, degli anni Ottanta sul Mostro di Firenze e su Signa. Sarà un caso che su di lui si sapesse e si sappia (ancora) pochissimo? Si intende, sia in assoluto che in relazione ai sempre corposi dati, raccolti in oltre quarant’anni di indagini e di storiografia, su qualunque altro degli individui sfiorati da questa storia. In tal senso può dirsi allora che il maggiore dei Vinci, sino a pochi giorni fa, apparteneva al novero dei personaggi più che secondari di quella periferia dimenticata del Mostro di Firenze che è la pista sarda.
Ma adesso, con questa nuova verità, le cose sono cambiate? No. Giovanni Vinci rimane una figura totalmente estranea all’epopea criminale del Mostro di Firenze. E anche le dinamiche sociali e famigliari sottese al delitto di Signa del 1968, come il movente e l’esecuzione materiale dell’eccidio, pure alla luce di questo tassello che da oggi grida una nuova collocazione nel puzzle della complessa dynasty criminale tosco-sarda, sembrerebbero rimanere le medesime di prima.
Vediamo perché, in sei motivi.

1. Una condanna a morte
Barbara Locci, l’Ape regina, per via della sua esuberante e scabrosa vita sessuale lontana dai costumi del tempo e soprattutto per via del fatto che spendesse i soldi faticosamente guadagnati dal marito con – e per – gli amanti, sarebbe stata comunque condannata a morte dai Mele e dai Vinci. I primi per ragioni economiche: non potevano più tollerare l’emorragia finanziaria cagionata da Locci alla quale il marito, psicologicamente così fragile, non riusciva a porre rimedio; i secondi per arcaici motivi di onorabilità: quella donna, pur sposata formalmente con un Mele, apparteneva a loro, e non era accettabile che si facesse vedere in giro con altri uomini. In questo contesto antropico criminale, se giochiamo a inserire la figura di Giovanni come mandante del delitto, cosa astrattamente possibile ma mai emersa in decenni di indagini, i fatti e il movente non cambiano.

2. Il ruolo di Stefano Mele
Il marito cornuto, il povero debole di mente, l’unico che ha pagato col carcere per quel delitto, è una sorta di vittima indiretta, circuita dai suoi famigliari e dai Vinci. Quell’omicidio – così gli dicono – deve essere fatto, è nel suo interesse poiché è lui il responsabile dei disastri che combina la moglie. E gliel’ammazzano loro, Barbara, se non se la sente. Anzi, gliel’ammazzano loro anche se se la sentisse, che tanto, anche volendo, non ne sarebbe in grado. Gli fanno un gran favore, insomma. Però, deve esserci mentre avviene il delitto, e soprattutto, dopo, deve prendersi la colpa davanti alla comunità e davanti alla legge, e starsene buono in galera, perché così si fa in quel mondo, il loro. E lui così fa. Più o meno. Il resto della storia è noto: una volta davanti ai carabinieri, sotto torchio, non regge emotivamente alle pressioni – e forse pure a un po’ di botte. Inoltre, ha paura della galera, ma anche e soprattutto di quelli fuori. E allora dice qualcosa, poi ritratta e alla fine si avviluppa in quella girandola di dichiarazioni contraddittorie e illogiche che mandano fuori strada generazioni di inquirenti – e lui verso una condanna per duplice omicidio. Anche qui, se giochiamo a inserire la figura di Giovanni tra coloro che ordiscono il delitto e agiscono psicologicamente su Stefano, cosa astrattamente possibile, e a questo punto anche ragionevole se pur mai emersa, tutto quanto detto sopra non cambia.

3. Natalino, lo scudo morale
Barbara Locci, che era ben consapevole che i Vinci la volessero morta, con ogni probabilità era a conoscenza pure del fatto che il padre biologico del suo Natale fosse un Vinci. Che ella poi sapesse che quel Vinci fosse Giovanni e non Salvatore non cambia, e anzi rafforza la spiegazione fornita dalla letteratura più attenta sulle ragioni del suo comportamento: Barbara avrebbe comunque mantenuto quella folle condotta di portarsi appresso il figlio mentre si congiungeva con un amante, convinta che il piccolo fosse uno scudo morale capace di fermare chi la voleva uccidere, sottovalutando tragicamente, però, le capacità criminali e organizzative dei fratelli Vinci – con o senza Giovanni. Di conseguenza, anticipando ciò che verrà detto più avanti, Natale Mele, che fosse il figlio di Stefano Mele o di Salvatore o di Giovanni Vinci, sarebbe stato comunque risparmiato dall’azione repressiva dei sicari che agirono in quell’afosa notte d’estate del 1968. I due (o tre) Vinci, infatti, non solo consideravano “roba loro” Barbara, che veniva punita per aver allargato il suo giro di occasioni sessuali, ma anche Natalino, sangue del loro sangue, che andava dunque salvato dall’eccidio. (Tuttavia, va chiosato che, in ossequio a una mentalità criminale che per convenzione potremmo chiamare tradizionale, certamente di stampo non maniacale, la vulgata vuole che i bambini, comunque, non si tocchino).

4. Gli autori materiali
I fratelli Francesco e Salvatore Vinci, gelosi in maniera folle, violenti in particolar modo col genere femminile, due prototipi di criminali declinati in maniera molto diversa, sì, ma pur sempre criminali, umiliati dalle scorribande sessuali di Barbara con altri uomini della zona e rabbiosi per aver perso l’esclusività del rapporto con la donna, avrebbero comunque eseguito materialmente il delitto, assieme o alternativamente, con o senza Giovanni. E come minimo, uno dei due, più verosimilmente Francesco, avrebbe fornito l’arma per commetterlo. È vero, ben potrebbe aggiungersi a questa “squadra” di assassini Giovanni Vinci, collocandolo sulla scena del crimine. Ma, di nuovo, non cambierebbe nulla nell’interpretazione dell’intera vicenda. Tuttavia, va detto che Giovanni non verrà mai coinvolto in nessuna delle attorcigliate dichiarazioni – per quello che conta – di Stefano Mele, ma neanche in quelle rese dal resto della galassia di persone informate sui fatti o indagati. Possibile che tutti, ma proprio tutti, abbiano riferito dei vari Francesco, Salvatore, Stefano, Giovanni (Mele) Piero, Carmelo o “Virgilio” eccetera eccetera, ma non di lui, Giovanni Vinci? Ancora una volta, astrattamente possibile, questo sì, ma nell’alveo del poco probabile.

5. Una vittima collaterale
Anche Antonio Lo Bianco, vittima collaterale di un duplice omicidio annunciato, amante appena più che occasionale di Barbara per quella sfortunata notte, avrebbe ricoperto questo stesso triste ruolo di morto ammazzato “per caso”, sia contemplando Giovanni tra gli assassini, o tra i mandanti, che fuori da quelle manovre di morte. E forse vale la pena spendere qualche parola su due episodi, un po’ trascurati nella letteratura sulla vicenda, che lasciano intuire quale furono le ragioni del delitto e rappresentano un indizio, non così secondario, per delineare il ruolo che ebbero i Vinci e pure i Mele nella decisione di assassinare la coppia: Rosalia Barranca, vedova di Antonio Lo Bianco, aveva raccontato ai carabinieri che, il giorno dei funerali del marito, Vitalia Melis, moglie di Francesco Vinci, nel farle le condoglianze, piangendo, le aveva chiesto “perdono”, pur mettendo tuttavia le mani avanti sul fatto che suo marito col delitto non ci entrasse nulla – ma, allora, “perdono” per cosa? Sempre Barranca, anni più tardi, dirà agli inquirenti che Giovanni Mele, fratello di Stefano, le avrebbe detto, riferendosi a Barbara Locci, che la donna era “già morta prima che la si uccidesse” e, ancora, che prima o poi a qualcuno che era con lei sarebbe dovuto capitare, e infine che gli dispiaceva che quel qualcuno fosse stato suo marito. Ancora una volta, inserendo la figura di Giovanni Vinci nel perimetro delle (tante) persone coinvolte, la “verità più verosimile” su Signa rimane la stessa.

6. L’esecuzione della condanna a morte
Ma soprattutto, e veniamo al cuore del discorso e alla cosa più importante da dire, ipotizzando la presenza di Giovanni tra i mandanti o tra gli esecutori materiali dell’azione omicidiaria non cambia la dinamica del delitto. Un’esecuzione che non ha nulla a che vedere col modus operandi del Mostro di Firenze e che – come ci insegnerebbe la miglior criminologia profilazionista – non presenta alcun aspetto maniacale nella condotta. Otto colpi di pistola. Quattro a lei, quattro a lui. Tutti a segno. Nessun fendente all’arma bianca, o, dato che dovremmo essere in tema Mostro di Firenze, nessuna asportazione di una o più parti anatomiche della vittima femminile. Così, per dire. Per non parlare del fatto che addirittura l’assassino o gli assassini avranno la premura di ricomporre il cadavere di Barbara Locci, tirarle su le mutande e abbassarle il vestito a coprire la parte alta delle cosce; o, come spiegato sopra, che chi fa fuoco non solo sarà ben attento a che le palle di proiettile non sfiorino Natalino ma che poi lo porterà via, pare in spalla, il più lontano possibile dalla scena del delitto, al sicuro. In realtà quest’ultima circostanza non verrà mai chiarita. Ma a ogni modo, no, non è affatto un delitto del Mostro di Firenze, questo.

Ebbene, ora che sappiamo con certezza che il papà di Natale Mele è Giovanni Vinci, e non Stefano Mele e non Salvatore Vinci, e che si è doverosamente analizzata ogni possibile sfumatura del caso attraverso questa rinnovata lente interpretativa imposta da questo fatto, il duplice omicidio di Signa del 1968 passa dal non essere attribuibile alla sequenza delittuosa del Mostro di Firenze al… non essere attribuibile alla sequenza delittuosa del Mostro di Firenze. Di conseguenza nessuno dei sardi è il Mostro (ma questo, lo si sapeva già). Ed ecco che questo scoop estivo, già maneggiato un po’ troppo solennemente da qualche incauto commentatore come una clamorosa svolta nelle indagini, in mancanza o comunque in attesa di uno sviluppo per davvero penetrante sui sardi prodotto dalla procura, andrebbe accolto per quello che molto prosaicamente è: cronaca rosa intrecciata a una cronaca nera di quasi sessant’anni fa, a sua volta slegata dai fatti di una paurosa banda di assassini che agirà da quelle parti, anni più tardi.

Ghost track: e se Pietro Pacciani fosse stato un killer prezzolato, a Signa?
To be continued…

Author: Roberto Taddeo

Avvocato e autore di "MDF La storia del Mostro di Firenze", Voll. 1, 2, 3 (Mimesis edizioni 2023), curatore de "Il labirinto del Mostro di Firenze" (AA.VV. Mimesis edizioni 2025), direttore della collana Le notti della Repubblica (Mimesis edizioni). È consulente della Commissione parlamentare sui fatti del Forteto (2024 a oggi).

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