
Milena Quaglini è stata una delle poche serial killer donne italiane, attiva tra il 1995 e il 1999. Nata il 25 marzo 1957 a Mezzanino, in provincia di Pavia, ha avuto un’infanzia segnata da abusi e violenze domestiche. Nel corso della sua vita, ha ucciso tre uomini che, secondo le sue dichiarazioni, l’avevano aggredita o abusata sessualmente. Il 16 ottobre 2001, mentre era detenuta nel carcere di Vigevano in attesa di processo, si è tolta la vita impiccandosi nella sua cella. Si può senz’altro dire che la sua vicenda non abbia eguali né nel nostro Paese, né nel mondo. Sì, è vero, c’è la storia dell’americana Aileen Wuornos, resa famosa sul grande schermo dall’interpretazione da Oscar di Charlize Theron nel film Monster del 2004, ma la Wuornos vestiva con più agio i panni della serial killer rispetto a Milena.
Entrambe sono morte in carcere, più o meno alla stessa età (intorno ai quarantacinque anni), però ad Aileen furono i boia di Stato della Florida a togliere la vita con un’iniezione letale, dopo che lei l’aveva tolta a sette uomini tra l’89 e il ’90.
Anche la Wuornos durante il processo a suo carico dichiarò di essere stufa di tollerare sevizie e violenze e che i suoi omicidi erano stati compiuti per legittima difesa contro certi maschi che avevano tentato di stuprarla; ma lei era una prostituta dall’età di tredici anni, una delinquente “brutta, sporca e cattiva”, una donna persa che entrava e usciva dalla galera, un figlio nata da una violenza dato in adozione, una fidanzata. Aileen era uno scarto della società che per campare batteva ogni notte sull’autostrada fin da quando era una ragazzina. La Wuornos stessa diceva: «Li ho derubati e uccisi, fredda come il ghiaccio, e lo farei di nuovo, perché li odio da sempre».
In Italia è famosa la macabra vicenda della saponificatrice di Correggio, la famigerata Leonarda Cianciulli, una disturbata, una malata di mente, una fervente fascista che negli anni Quaranta uccise alcune sue amiche per poi fare a pezzi e bollire nella soda caustica le loro membra, ricavandone cremoso sapone. Nel suo corposo e particolareggiato libro di confessioni, si dice convinta di essere una strega e di avere il potere di uccidere per trovare un corpo migliore che accolga l’anima delle sue vittime.
La Cianciulli aveva partorito diciassette volte. Solo quattro bambini erano sopravvissuti. Dunque, era legittimamente “un’anima amareggiata”, ma anche una truffatrice, una ladra, un’impostora. Insomma, era considerata un essere ignobile.
Milena non è stata niente di tutto questo: era una donna graziosa e apparentemente mite, che lavorava, che dipingeva, che amava i propri figli. Forse è soprattutto questo aspetto – che le è valso il soprannome di “angelo sterminatore” – a renderla una figura per certi versi affascinante, ancorché una violenta, una folle senza scrupoli, un’assassina recidiva. La voce di Milena Quaglini colpisce chi l’ascolta e chi la legge perché esprime una disperazione dolce e consapevole; la sua non è la voce di una donna malvagia, di un’assassina.
I giornalisti nei loro articoli, gli autori nei loro saggi, l’hanno definita “la vendicatrice” o “la giustiziera” ma la definizione che ricorre più spesso è quella di serial killer: tecnicamente è serial killer chi si macchia di tre o più omicidi. Eppure, lei non sembra una serial killer, i suoi moventi non sono quelli di un’assassina seriale. Milena non sembra, ma è.
Chi ha visto le sue fotografie e letto la sua storia si domanda come abbia intrapreso la strada del crimine, se ci sia finita dentro per puro caso o per un’indole emersa all’improvviso. Sembra piuttosto una donna in trappola, incastrata in una vicenda più grande di lei, che non è la sua. Una donna che confessa delitti che non può aver compiuto.
Milena Quaglini non è molto credibile nei panni della serial killer: la gentilezza dei suoi modi stride con l’immagine di lei che colpisce, strangola, affoga, stritola, avvelena. Ma poi perché lo fa? Per ottenere cosa? Qual è il movente dei suoi delitti?
Le donne serial killer solitamente avvelenano per arricchirsi, per profitto: sono le cosiddette vedove nere, il gruppo più consistente. I criminologi suddividono le altre in due sottoinsiemi più piccoli: angeli della morte o predatrici sessuali. Ma Milena, nonostante sia stata soprannominata “la vedova nera del pavese”, non è neppure questo, una vedova nera: non ha colpito per impossessarsi dei beni delle sue vittime, come fecero tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento le serial killer statunitensi Belle Gunness e Nannie Doss, “la nonna che ride”.
Milena non è un “angelo della morte”, non è un’infermiera silenziosa e insospettabile che uccide negli ambienti asettici degli ospedali o delle case di riposo in cui lavora, come la conterranea Sonya Caleffi. Milena non è neanche una predatrice sessuale promiscua e senza scrupoli come Aileen Wuornos. Non è un’assassina per profitto, non è una team killer, cioè non ammazza in coppia o in complicità con altri, come la famigerata criminale americana Bonnie Parker, compagna di Clyde Barrow. Milena ha ucciso sempre da sola.
Non è l’unico caso al mondo, ma solitamente questa tipologia di omicida colpisce una volta sola. Milena invece ha ucciso almeno tre uomini violenti, ribaltando le carte in tavola: per definire i suoi omicidi bisogna ricorrere alla parola – assai poco comune – di androcidi.
L’androcidio resta un fenomeno assai raro, anche perché per commettere un crimine violento è spesso necessaria non poca forza fisica ed è per questo che le vittime sono perlopiù donne. Gli omicidi attribuibili a Milena – mite vittima prima che spietata carnefice – mi sono sembrati ascrivibili a una forma estrema, anche se inconsapevole, di ribellione a un patriarcato cieco e violento. E raccontare la sua storia significa portare alla luce una verità scomoda che in qualche modo non smette di riguardare tutti quanti.
(la storia di Milena Quaglini è raccontata nel libro “Milena Q. Assassina di uomini violenti” di Elisa Giobbi – Mar dei Sargassi Edizioni – 2022)