
Oggi è morto un uomo a conoscenza di molti dei segreti della Prima Repubblica. Una frase che abbiamo letto tante volte, ma che nel caso di Francesco Pazienza, di professione “faccendiere“, suona quasi riduttiva. Perché con lui non scompare solo un testimone, ma si sigilla un labirinto. E la domanda che resta sospesa nell’aria è forse la più importante: Pazienza è stato l’architetto di quel labirinto, o ne è stato il prigioniero più illustre, sacrificato per impedirci di trovare l’uscita?
Per la cronaca e per i tribunali, ci sono alcune certezze. Il suo nome è indissolubilmente legato ad alcuni dei buchi neri più profondi della nostra storia. Fu consulente strapagato del SISMI, i nostri servizi segreti militari, in anni di piombo e di strategie della tensione. Ha subito una condanna definitiva a 13 anni per aver orchestrato il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, un’operazione scientifica per allontanare la verità dall’eversione neofascista. Era l’uomo vicino a Roberto Calvi nei giorni disperati prima che il presidente del Banco Ambrosiano venisse trovato impiccato a Londra, protagonista di un crack finanziario che coinvolgeva lo IOR vaticano, la loggia P2 e la mafia.
Questi sono i fatti, i punti fermi. Ma è proprio qui che il mistero, invece di diradarsi, si infittisce. Ed è qui che un appassionato di storia e di “dietrologia” inizia a porsi le domande giuste.
Una condanna per depistaggio, certo. Ma un uomo solo, per quanto abile, può davvero orchestrare un’operazione così complessa capace di sviare un intero apparato investigativo? O dobbiamo pensare a Pazienza come a un esecutore di altissimo livello, un terminale di input che arrivavano da molto più in alto, da quel “doppio Stato” che per esistere aveva bisogno di volti da dare in pasto all’opinione pubblica quando qualcosa andava storto?
E ancora, la vicenda Calvi. Pazienza era davvero il faccendiere che manovrava il banchiere, o era solo un altro giocatore in una partita mortale, più informato e scaltro di altri, che ha provato a salvarsi la vita capendo prima degli altri che il gioco era finito? Le sue infinite dichiarazioni, i suoi memoriali scritti dal carcere, erano i deliri di un mitomane o un disperato tentativo di lanciare messaggi in bottiglia, sapendo che nessuno avrebbe avuto il coraggio di raccoglierli?
La domanda fondamentale sulla sua figura resta intatta, ed è questo il vero spunto di riflessione. Francesco Pazienza è stato un geniale e spregiudicato architetto di trame, un burattinaio che per decenni ha mosso i fili del potere occulto? Oppure è stato la vittima sacrificale perfetta, l’uomo usato dal sistema per i lavori più sporchi e poi isolato, braccato e condannato per proteggere segreti e nomi che dovevano rimanere nell’ombra a ogni costo? Carnefice o capro espiatorio?
La sua morte non porta con sé nessuna risposta definitiva. Al contrario, rende il mistero assoluto. I segreti che si porta nella tomba non sono solo i suoi, ma appartengono a un’intera stagione della nostra Repubblica. E ora che l’ultimo custode – o l’ultimo grande depistatore – non può più parlare, ci resta solo una certezza: quel libro sulla storia segreta d’Italia ha appena perso uno dei suoi narratori più controversi, e forse non sapremo mai come finiva davvero.
A seguire l’intervista di Raffaella Fanelli