“Sono molti i dubbi sulla morte di Pietrino Vanacore. I suoi tre figli non hanno mai creduto alla tesi del suicidio e hanno da subito espresso le loro perplessità”. L’avvocato Claudio Strata è il legale dei figli del portiere di via Poma trovato senza vita nelle acque di Torre Ovo, una località di mare in provincia di Taranto, il 9 marzo del 2010. Tre giorni dopo Vanacore avrebbe testimoniato davanti alla Corte di Assise di Roma nel processo contro Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, la ragazza uccisa con 29 colpi di tagliacarte il 7 agosto del 1990 in un appartamento al terzo piano dello stabile di via Poma. “Era stato il primo ad essere accusato dell’omicidio di Simonetta Cesaroni – ricorda l’avvocato Strata – un’accusa di omicidio caduta quasi subito. Tre anni dopo ripiombò nell’inchiesta con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, un inquilino di quel palazzo. Entrambi furono prosciolti tre anni più tardi. Del suicidio di Vanacore so quello che ho letto nelle carte che mi hanno portato i figli. Ho letto il fascicolo e la relazione autoptica. All’inizio sospettavano avesse ingerito del veleno o altro ma gli esami tossicologici lo hanno escluso. Stando all’autopsia sarebbe morto per annegamento. In meno di 50 centimetri d’acqua”.
La mattina di quel 9 marzo Pietrino Vanacore è andato al bar per un caffè con gli amici del paese e a metà mattinata, dopo aver fatto il pieno di benzina alla sua vecchia auto, ha comprato e mangiato un panino nell’unica panetteria di Torre Ovo, soltanto dopo, stranamente, si sarebbe tolto la vita. Tutti, quella mattina, lo hanno visto da solo ma nessuno lo ha notato mentre andava a piedi verso il mare, dopo aver parcheggiato la sua Citroen grigia. Nessuno ha visto se c’era qualcuno ad aspettarlo sulla spiaggia di Torre Ovo.
“Scrissi di una morte per annegamento – dice Massimo Sarcinella, il medico legale che eseguì l’autopsia su Pietrino Vanacore – E un annegamento può essere accidentale o suicidario ma può anche essere indotto da terzi. Inoltre, mi sembrò strano il luogo scelto per il suicidio. L’acqua in quella zona è davvero bassa e arriva quasi a sfiorare gli scogli. Sarebbe stato sufficiente afferrare una roccia con una mano o addirittura alzarsi in piedi per salvarsi”. Per un naturale istinto di sopravvivenza che Vanacore, evidentemente, non ha avuto. Si era però premurato di far ritrovare il suo corpo legandosi una caviglia con una fune fissata a un albero. Lucido eppure così tanto confuso da dover scrivere due cartelli e un foglio per giustificare il suo suicidio. Il primo, un cartello di colore marrone, lo posizionò sul pannello posteriore del vano bagagli della sua auto con la scritta “Vent’anni di calvario senza nessuna colpa portano al suicidio”. Un altro cartello di colore bianco lo lasciò in bella vista sul cruscotto e riportava la frase “20 anni perseguitati senza nessuna colpa”. Sotto a questo secondo cartello fu ritrovato un foglio bianco formato A4 dell’agenzia assicurativa Generali con la scritta in corsivo “Senza nessuna colpa, ne mia, ne della mia famiglia – ci anno distrutti nel imorale, nell’imagine e tutto il resto. Lo porteranno sulla coscienza tutti coloro. firmato Vanacore Pietrino”. E sono proprio gli errori contenuti in questa frase, la firma e quel cognome messo prima ad aver alimentato i dubbi dei familiari del portiere.
Il fascicolo sulla morte di Vanacore, con l’ipotesi di reato di “aiuto o istigazione al suicidio”, è stato chiuso l’8 marzo 2011 e l’inchiesta, durata un anno, ha stabilito che Vanacore “si è ucciso di sua spontanea volontà e che lo ha fatto perché non sopportava più l’invadenza del caso di via Poma nella propria vita privata”. Eppure figli e amici, vicini di casa e parenti dicono di averlo visto sereno. Dicono che era tranquillo. Perché avrebbe dovuto uccidersi quando sul banco degli imputati c’era un’altra persona? Avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non rispondere invece aveva deciso di testimoniare. E Raniero Busco, imputato per l’omicidio di Simonetta Cesaroni in Vanacore e nelle sue risposte ci sperava. Poche settimane prima, durante un’intervista, aveva urlato “Salvami! Tu sai che sono innocente”. Una bella responsabilità per Pietrino. Che alla fine decide di presentarsi in aula, organizza col figlio il suo viaggio a Roma e tre giorni prima si lascia affogare in meno di un metro d’acqua.
La vita della famiglia Cesaroni è stata devastata da un omicidio orrendo e da una mancanza di verità che per oltre trent’anni – e mi permetto di pensarlo e di scriverlo – ha segnato anche la famiglia Vanacore. Perché quel portiere non era un assassino. Non era neanche un complice. Ma una vittima. Può aver taciuto per paura ma non per soldi, come qualcuno ha insinuato. Perché di soldi Pietrino non ne aveva. Dell’intricato giallo di via Poma, Pietrino Vanacore era la tessera più importante. Come l’altra, mai trovata, del movente. Perché è stata uccisa Simonetta Cesaroni? Perché è stato suicidato Pietrino Vanacore? Dalle risposte a queste domande bisognerebbe ripartire.
(pubblicato sulla Libertà di Piacenza)












