Il delitto di Arce

Non esiste solo Garlasco. In Italia, di delitti che faticano a trovare una risposta giudiziaria definitiva ce ne sono molti, purtroppo. Potremmo definirli “delitti imperfetti“, storie drammatiche che continuano a rimbalzare come una pallina impazzita in un sistema giudiziario che non riesce a trovare un equilibrio. Uno di questi è il caso di Arce. L’omicidio di Serena Mollicone, infatti, continua a ribaltare sentenze e certezze a distanza di quasi un quarto di secolo, dimostrando quanto, nel nostro paese, possa essere accidentato il percorso che dovrebbe condurre alla verità.
Lo ricorda, con toni severissimi, la Corte di cassazione nelle motivazioni depositate ieri dell’annullamento della sentenza di secondo grado che, nel luglio 2024, aveva confermato l’assoluzione dell’ex comandante dei carabinieri Franco Mottola, della moglie Annamaria e del figlio Marco. Nel documento gli ermellini parlano di “passaggi motivazionali talmente contraddittori da risultare incomprensibili”, e accusano i giudici di merito di aver fatto “copia-incolla” delle lacune già rilevate in primo grado a Cassino nel 2022.
Le incongruenze elencate sono molteplici: manca la valutazione di due intercettazioni del 2008 che potevano risolvere i dubbi sulla credibilità del brigadiere Santino Tuzi, l’uomo che pochi giorni prima di suicidarsi raccontò di aver visto Serena entrare in caserma la mattina del 1° giugno 2001; non è stata valutata la deposizione di un maresciallo indicato dalla Procura come teste chiave; e, soprattutto, è stata liquidata con poche righe la perizia del RIS sulla porta dell’alloggio di servizio dei Mottola, con quelle ammaccature che combaciano con il trauma cranico della ragazza.
I giudici di legittimità segnalano inoltre un “plausibile contrasto di natura personale” fra Serena e Marco Mottola, ipotesi mai approfondita nei primi due gradi di giudizio.
Toccherà ora a una Corte d’assise d’appello, in diversa composizione, l’arduo compito di sciogliere quei nodi: riesaminare ogni prova scientifica, rivalutare singolarmente e nel loro complesso le testimonianze, decidere se quel contrasto potesse davvero degenerare in violenza.
Serena Mollicone, studentessa del liceo psicopedagogico di Sora, aveva diciotto anni quando uscì di casa, alle 8.30 del 1° giugno 2001, per andare a fare un’ortopanoramica a Isola del Liri. Da quel momento si persero le sue tracce. Il 3 giugno, in un boschetto di Fonte Cupa, località Anitrella, venne ritrovato il suo corpo con mani e piedi legati con nastro adesivo, un sacchetto di plastica in testa e una ferita sopra il sopracciglio sinistro. Si accertò che la morte era sopravvenuta per asfissia e che non aveva subito violenza sessuale.
Da quel giorno, come è accaduto più volte, si susseguirono una serie di tentativi investigativi alimentati più dall’ansia di raggiungere un risultato a tutti i costi per smorzare la tensione mediatica che da una reale consistenza indiziaria. Si ipotizzarono le immancabili sette sataniche, vendette familiari, persino un coinvolgimento del padre Guglielmo che venne prelevato in Chiesa e portato nella caserma dei Carabinieri mentre partecipava, distrutto, al funerale della figlia. Poi venne arrestato il carrozziere Carmine Belli, che passerà un anno e sette mesi in cella prima di essere assolto in via definitiva. Insomma, andò in scena il classico repertorio di una giustizia impazzita che, incapace di interpretare in modo efficiente la propria funzione, colpisce a caso distruggendo vite di persone innocenti. Effetti collaterali si potrebbero definire, in uno scenario di guerra.
Dopo la scarcerazione di Carmine Belli nel 2004 le indagini si fermano. L’omicidio di Serena sembrava destinato a restare senza un colpevole. Forse qualcuno sperava che venisse dimenticato. Ma non aveva fatto i conti con Guglielmo Mollicone, il padre che per vent’anni ha marciato da un tribunale all’altro con la foto della figlia cucita sul gilet, che fino alla sua morte nel 2020 non si è mai arreso e ha continuato a chiedere allo Stato di trovare l’assassino di sua figlia.
Nuovi elementi arrivarono all’inizio del 2008, quando gli inquirenti decisero di ascoltare un testimone rimasto ai margini fino a quel momento: il brigadiere Santino Tuzi, piantone della caserma di Arce il 1° giugno 2001. Il 28 marzo 2008 Tuzi mise a verbale di aver visto “una ragazza corrispondente a Serena” entrare in caserma verso le undici e di non averla più vista uscire Fu la prima conferma interna che la “pista della caserma” non era solo un’illazione, ma poteva avere una sua concretezza. La procura dispose subito un supplemento d’indagine su possibili responsabilità di militari in servizio e su eventuali depistaggi. L’11 aprile 2008, tre giorni dopo un secondo colloquio in Procura, Tuzi si tolse la vita con la pistola d’ordinanza
Il suicidio trasformò la testimonianza tardiva in un atto d’accusa: se il brigadiere aveva taciuto per sette anni, perché parlò proprio allora? Se aveva detto la verità, da cosa era terrorizzato? Domande che la morte del teste resero ancora più brucianti e che spinsero la procura a riaprire formalmente il caso poche settimane dopo, con una delega d’indagine focalizzata sui Mottola e sulla caserma dei Carabinieri di Arce.
La vera svolta si materializzò tra il 2016 e il 2018, quando venne riesumata la salma di Serena ed effettuata una seconda autopsia, eseguita dalla dottoressa Cristina Cattaneo del LABANOF di Milano. Inoltre, i rilievi del RIS consentirono di affermare la compatibilità tra l’ammaccatura della porta dell’alloggio di servizio dei Mottola e la ferita alla testa della ragazza. Nel 2019 la Procura di Cassino chiuse le indagini e chiese il rinvio a giudizio di cinque imputati – tre appartenenti alla famiglia Mottola e due carabinieri accusati di depistaggio – sostenendo che l’omicidio era avvenuto dentro la caserma, al culmine di una lite fra Serena e Marco.
Il 15 luglio 2022, però, la Corte d’assise di Cassino assolve tutti “per non aver commesso il fatto”. Un anno dopo, il 12 luglio 2024, l’Appello di Roma conferma. La Cassazione, l’11 marzo 2025, ribalta il verdetto e ieri ha spiegato perché: motivazioni “incoerenti in più punti” impongono di rifare il processo “seguendo criteri di logicità, completezza e coerenza”.
Non c’è molto da gioire. Il dispositivo della Suprema Corte non consegna colpevoli e, al tempo stesso, certifica il fallimento di un doppio giudizio di merito. È l’ennesima dimostrazione che un processo penale non può reggersi su scorciatoie: occorre dissezionare le prove, spiegarle, collegarle. Altrimenti il rischio, per la giustizia e per la memoria delle vittime, è di eternizzare l’incertezza.
Delitti imperfetti”, dunque. Come imperfetto è l’omicidio che rivela la fragilità degli apparati investigativi; imperfetta è la verità che cambia forma a ogni grado di giudizio. Ma imperfetta, soprattutto, è l’Italia che si scopre incapace di chiudere i conti con il suo passato giudiziario.

Author: Antonio Fusco

Laureato in Giurisprudenza e in Scienze delle pubbliche amministrazioni, ha conseguito il Master di secondo livello in Criminologia Forense ed è iscritto alla Società Italiana di Criminologia. Quale Dirigente della Polizia di Stato, attualmente in quiescenza, si è occupato di indagini di polizia giudiziaria, investigazioni e contrasto alla criminalità. Scrive romanzi crime per Giunti (serie delle indagini del commissario Casabona) e per Rizzoli (serie delle indagini dell'ispettore Massimo Valeri - l'Indiano). Alcuni dei suoi libri sono stati tradotti in Germania, Grecia e Turchia.

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